Approfondimenti - Il Consiglio News Feed

mercoledì, febbraio 28, 2007

Italia.it, il nuovo fallimentare portale turistico italiano da 45 milioni


Internet fa paura. E più di tutti fa paura a chi ha vissuto in prestito il tempo che gli era stato concesso. Quello che ha appunto fatto l' "Italia", basando tutto sull'apartheid politico e culturale di circa metà della sua popolazione. Isolandola dal mondo e ottenendo dai propri padroni mano libera nel genocidio culturale che ha scientificamente attuato negli ultimi 146 anni.

Ma il mondo continua a girare, la storia non finisce e le frontiere continuano ad aprirsi e poi a richiudersi in forme sempre nuove. Ed ecco che arriva la rete: accessibile, istantanea, rivoluzionaria. Scavalca ogni muro e propaganda un nuovo ordine mondiale che molti ancora guardano con sospetto.

Nessuno è ancora capace di dire con sicurezza cosa sarà questo nuovo ordine mondiale, quali le opportunità e quali le minacce (sempre a seconda dei punti di vista), ma è già interessante come coloro che hanno di più da perdere da un qualche cambiamento cerchino puerilmente di trasportare i loro miserabili trucchi sul nuovo media ottenendo risultati da circo delle atrocità.

E' questo il caso del nuovo portale turistico ufficiale italiano, http://www.italia.it/ , maldestro ed arrogante (oltre che ignorante) tentativo di intercettare il flusso di turisti che invece di farsi propinare il solito televisore pieno di mattoni, questa volta nella forma di un volo Alitalia diretto verso la malsana aria meneghina, decidono di saltare su un volo low cost ed arrivare direttamente sulle spiagge siciliane.

Vediamo dunque di iniziare questo tour virtuale d'Italia attraverso le pagine del portale.

Collegandosi alla pagina principale veniamo accolti da una serie di immagini volte a fotografare i mille volti della nostra amata patria: scatti da tutta la penisola, isole comprese, senza didascalia nel caso in cui qualcuno volesse capire da dove viene il suggestivo mulino a vento messo lì a competere con quelli olandesi.

Ora immaginiamo di non essere mai stati in Italia e di non saperne poi tanto. Cerchiamo di capire cosa c'è da vedere attraverso le informazioni del sito. Sulla prima pagina (28/02/2007) notiamo articoli sulla neve (nord Italia), sulla moda (Milano), sulle ville della provincia di Vicenza (?), su un teatro di Perugia (centro Italia), e sul Barocco. Ecco: qui si va a sud. Si, ma dopo aver messo sugli scudi la capitale. Passiamo ad altro.

In alto, alla voce "Visita l'Italia" solo qualche numero riguardo le regioni, poi si passa alla storia d'Italia, e le chicche sono imperdibili. Alle voci "Italia preistorica" e "popoli italici" ci è dato il privilegio di avere notizie sulla Valcamonica, sui Villanoviani, sugli Etruschi. Per il resto non si sa cosa sia la civiltà di Castelluccio, cosa siano i Siculi o i Sicani o addirittura cosa sia la Magna Grecia, tranne una generica allusione parlando degli Etruschi. Quindi si passa direttamente a Roma. Siracusa, Crotone o Taranto non sono esistite.

Saltiamo qualche secolo, ed arriviamo al medioevo: secondo le baggianate del portale delle fandonie "gli Arabi si stabilirono in Sicilia, divenuta base per le incursioni nel Mediterraneo dei pirati saraceni, per secoli autentico flagello delle popolazioni rivierasche che ne venivano colpite": poteva essere altrimenti? Lo splendore della Sicilia araba, da cui nacque la letteratura siciliana e poi quella italiana, centro del sapere di allora, trasformato in disgrazia per tutta l'umanità.

Ma veniamo all'anno mille: qui si dovrà pur parlare dell'impero normanno... No: non sono riuscito a trovare menzionato Federico II, ma in compenso ci sono tutti i comuni del nord Italia, motivo di una arretratezza culturale che è arrivata sino ai nostri giorni. Basta, non me la sento di arrivare sino al risorgimento.

Passiamo a "Cosa fare" dal menù in alto: possiamo scegliere tra Arte e Cultura (unica citazione per il sud Castel del Monte a Bari) Enogastronomia (di nuovo la Puglia con le orecchiette) salute e Benessere (Isola d'Ischia), Religione e Spiritualità (nessuna citazione), Sport e Tempo Libero, dove la Sicilia viene menzionata praticamente solo per un giretto in Mountain Bike sull'Etna.

Alla voce "Itinerari" finalmente una inconfondibile immagine della Sicilia: una fila di vecchietti con la coppola. Ma chissà cosa vorrà mai suggerire questa bella immagine... lasciamo perdere. E va bene qualche itinerario c'è, forse siamo stati precipitosi. Ma andando agli eventi torniamo a sprofondare: a parte Eurochocolate di Modica non c'è niente. Santa Rosalia e Sant'Agata non sono neanche citate.

Forse perché le città di Catania e Palermo sono amministrate dalla destra? E sì perché facendo un rapido calcolo sembra che date, luoghi, eventi siano selezionati anche in base al colore politico. Incredibile: abbiamo anche il portale turistico politicizzato.

Ma ecco che arriviamo al gran finale: cliccate pure su "Organizza il tuo viaggio", ed ecco che la farsa si rivela ai nostri occhi in tutta la sua indecenza. Una freccetta cerca di suggerire al futuro turista l'aeroporto di Malpensa, ultimo disperato tentativo di salvare capra e cavoli (Alitalia + Hub) con possibile alternativa su Roma. Questi, secondo il portale di tutti noi italiani, sarebbero gli unici modi per arrivare in Italia per via aerea.

Non c'è che dire, sono alla frutta. Sarà anche per questo che sui giornali nazionali sono spuntati dei suggestivi articoli nei quali sembra si accusi la Regione Siciliana di sabotaggio perché sta per varare un suo portale turistico ulteriormente potenziato. Non dovrebbero forse i siciliani accontentarsi "di alcune pagine informative" su italia.it ed abbandonare il loro sito da 25 milioni di contatti al mese per il bene della nazione?

E già. Il crocevia della civiltà, la culla dei popoli, il 60% dei beni culturali italiani dovrebbe accontentarsi di essere definita "base per le incursioni nel Mediterraneo dei pirati saraceni". E che diamine.
[Continua a leggere...]

lunedì, febbraio 26, 2007

Ombre sullo stretto

L'incidente occorso all'aliscafo della Caronte nello stretto di Messina il 15 gennaio scorso sembra oramai entrato nel dimenticatoio mediatico verso il quale viene convogliata in Italia quella parte dell'informazione che non si adatti ai bisogni del regime.

Due importanti strutture proiettano le loro ombre sull'area, oggi baricentro di interessi “pesanti” e di lotte di potere che stanno lacerando l'Italia intera, anche se non lo si vuole dare a vedere. Due infrastrutture che in virtù della loro esistenza (o non-esistenza) stanno rimettendo il Sud Italia al centro del Mediterraneo e riconsegnando il nord a quella marginalità geografica che sempre ha avuto nella storia.

Le due strutture in questione sono il porto di Gioia Tauro (esistente) ed il ponte sullo stretto (non-esistente) ed entrambe gravitano intorno al varco tra lo Scilla ed il Cariddi, degne fere D'Arrighiane nell'arena che lo scrittore messinese rese nuovamente all'immaginario collettivo (qualche millennio dopo Omero...) con il suo Horcynus Orca.

L'incidente sopra ricordato ha messo in luce un grave limite della mega struttura calabra, oggi primo porto in Europa per il trans-shipment: tutto il carico da e per le sue banchine deve infatti passare per l'angusto valico acqueo tra Messina e Reggio, ponendo un tetto alla sua espansione.
Dall'altro lato il ponte voluto da certi ambienti economici e politici siciliani racchiude per Gioia sia minacce che opportunità (per ora solo potenziali). La costruzione del ponte liberebbe spazio navale sotto la sua campata ed al tempo stesso favorirebbe l'invio di container dalla Sicilia alla Calabria per l'imbarco rendendo di fatto Gioia lo sbocco in mare dell'isola (incredibile ma potenzialmente vero...). Dall'altro lato tutto ciò verrebbe vanificato improvvisamente qualora strutture concorrenti venissero allestite ad Augusta o a Termini.

L'Economist questa settimana dedica un articolo al porto di Gioia intitolandolo appunto “Rough Passage” (Passaggio difficile) con ovvio riferimento allo stretto. Oltre alle solite stupidaggini sulla mafia, ecco come la sua attività viene descritta:

“Gioia Tauro funziona come hub per la distribuzione di container in tutto il Mediterraneo ed il Mar Nero. L'arrivo di una grande nave madre può generare chiamate in porto anche per dieci navi di distribuzione”

Il business, come i post su questo blog hanno più volte evidenziato, è quindi nella redistribuzione dei carichi su navi più piccole che smistino i container verso gli scali regionali. Il giornale poi continua:

“Gioia Tauro possiede un grande vantaggio naturale. Esso siede praticamente al centro del Mediterraneo ed il porto per container, diversamente da quelli sull'Isola di Malta ed in Sardegna, è provvisto di collegamento su rotaia verso nord e verso i mercati in espansione nel cuore dell'Europa”.

Queste righe, pur tacendo il non secondario limite naturale dovuto al passaggio in mare, evidenziano uno dei motivi per cui il ponte non sia ben visto in determinati ambienti. Esso farebbe svanire il suddetto vantaggio, per quanto limitato esso sia.

Che il ponte abbia un senso solo ai fini del collegamento su rotaia lo confermano anche i numeri (e le dichiarazioni) snocciolati la settimana scorsa dall'assessore al turismo Dore Misuraca alla Bit di Milano. Il mezzo preferito per arrivare in Sicilia è infatti l'aereo, e la regione punta sempre di più su di esso grazie ai nuovi aeroporti ed agli aiuti (Bruxelles permettendo) che fornirà ai vettori Low Cost.

L'attraversamento autostradale dello stretto rimarrà ininfluente per lo sviluppo economico siciliano, mentre, come abbiamo già segnalato, il progetto esistente per il ponte non è affiancato da progetti complementari per quel che riguarda il collegamento su rotaia tra le due sponde.
Se poi i siciliani volessero per una volta guardare un po' più in la del loro naso e risalissero idealmente lo stivale si renderebbero conto che per arrivare al cuore dell'Europa ci sarà da passare un altro imbuto molto più stretto del nostro: le Alpi.

Il traffico attraverso questa barriera naturale è già oggi messo a dura prova, e forti opposizioni hanno suscitato i progetti di nuovi valichi. Secondo la Comunità Europea il traffico potrebbe arrivare al collasso nel giro di una ventina d'anni, non molto dopo la ipotetica entrata in servizio del ponte. Di nuovo, torneremmo ostaggio dei padani ed il ponte non servirebbe più a nulla.

Alla fine è ovvio come i fatti esposti debbano essere attentamente valutati così da permettere una serena riflessione su quali siano gli investimenti infrastrutturali necessari, se sia cioè il ponte un'opera secondaria al completamento delle strutture aeroportuali e viarie interne alla Sicilia (come questo blog suggerisce) o piuttosto una questione di vita o di morte come altri inverosimilmente strillano.

Una cosa però appare chiara da queste righe: ponte o non ponte, porti o non porti la globalizzazione sta spingendo la “Padania” verso un angolo. Stretta tra l'arco alpino e la lontananza dal baricentro del Mediterraneo l'unica sua speranza è quella del sabotaggio. Vedremo se riusciremo ad affrontare a viso aperto le prossime sfide che ci aspettano.
[Continua a leggere...]

venerdì, febbraio 23, 2007

Mala sanità, malo governo: ed i meridionali pagano

La luce manca in una sala operatoria di Vibo Valentia. La piccola Federica, in quel momento sotto i ferri, entra in coma e muore dopo qualche giorno. Le reazioni non tardano: tra visite immediate del ministro e fiaccolate di sdegno tutti da domani ci penseremo due volte prima di scegliere tra l'ingresso dell'ospedale sotto casa ed un biglietto su un treno della speranza verso il Nord Italia.

Spostiamoci a Firenze, un paio di giorni or sono. A tre persone vengono trapiantati gli organi infetti di una donna sieropositiva. Una vergogna di cui non si era mai sentito prima. Ma non è la stessa storia: niente malasanità nei titoli dei giornali. Solo il “tragico” errore di un analista che ora subirà la meritata gogna mediatica. Niente fiaccolate di vergogna: gli ospedali di Firenze sono ultrasicuri. Non voltatevi, salite pure su quel treno.

Il Blog “Il Consiglio” si propone di sollevare quel velo appiccicaticcio che ricopre la realtà siciliana (ed italiana) di oggi emanando quel puzzo insopportabile di risorgimento in decomposizione.
Uno degli aspetti che più contribuisce ad appesantire la sporca patina che ci avvolge è il supposto “vittimismo” dei meridionali, che da ogni lato vedono complotti, tentativi di sabotaggio e quant'altro ogni decente regime coloniale che si rispetti ha sempre perpetrato ai danni delle sue vittime.

Avvicinare tra di loro azioni che l'ufficialità vuole distinte e separate al contrario di ogni evidenza, sottolineare toni e risvolti della stampa, riportare i fatti in contesti più appropriati: ecco come possiamo cercare di capire finalmente che tipo di vittime siamo, se reali oppure (per dirla alla Molière) immaginarie.

Cercare di capire, ad esempio, come mai i cori al Barbera di Palermo contro la polizia sarebbero vergognosi e quelli di Vicenza a favore dei brigatisti una semplice marachella. Oppure perchè quando un lombardo ed un siciliano delinquono insieme, il settentrionale è un imprenditore ed il meridionale il figlio di un mafioso (ma non mafioso lui stesso, altrimenti pure il lombardo dovrebbe essere accusato di mafia) come per i fatti di Brescia (vedi post).

Telegiornali, radiogiornali, giornali sono pieni dei casi di malasanità siciliana (o meridionale in generale). Il fatto che siano esposti in modo così rumoroso non ci dispiace poi tanto: uno degli effetti di tanta pubblicità è stato lo spingere chi si è visto danneggiato dal solito figlio di papà salito in cattedra grazie alla tipica raccomandazione a sporgere denuncia.

Il conto però non torna quando si allarga l'orizzonte all'Italia intera. Secondo diverse indagini i morti di malasanità in Italia oscillano ogni anno tra i 14 mila ed i 50 mila, tanto che lo scorso settembre i giornali titolarono “Sono 90 al giorno i morti per malasanità in Italia”. Ancora più allarmante è sapere che i dati circa i 320.000 casi di malasanità registrati provengono da una indagine condotta su sei regioni (Campania, Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Piemonte, Sardegna) tra le quali risulta una sola regione meridionale (più la Sardegna). Come mai questa situazione di sostanziale “parità” tra nord e sud non può essere desunta dalle notizie riportate dai mezzi di informazione?

Sull'onda dei numerosi casi segnalati dalla stampa, il ministro della sanità Livia Turco ha anche disposto una indagine negli ospedali italiani che non ha avuto alcun significato: l'indagine dei NAS infatti tendeva ad evidenziare carenze igienico – sanitarie. I casi riportati dalla stampa si riferiscono invece ad errori umani ed a carenze amministrative che poco hanno a che vedere con l'igiene.

Il settore della sanità pubblica nel Bel Paese è lottizzato, da Milano a Ragusa. I dirigenti vengono selezionati in base al loro allineamento politico perchè gestire una ASL o un nosocomio pubblico significa gestire posti di lavoro traducibili in voti: il più classico dei voti di scambio. I casi di malasanità sono dovuti ad un sistema che ricalca paro paro il sistema di governo. Malasanità e malgoverno vanno a braccetto in tutta la penisola.

L'esempio più clamoroso che da solo chiarisce sia il tipo di gestione che caratterizza gli ospedali italiani, sia cosa realmente significhi malasanità non viene dalla Sicilia, ma dalla Lombardia dove nel '97 veniva smascherato il medico – truffatore Poggi Longostrevi che, tramite una rete di compiacenze politiche (senti che odore di tangenti...), si faceva rimborsare dalla ASL esami mai effettuati. Una truffa da miliardi. Risultato? Il medico nel '98 fu riabilitato dall'ordine (si suicidò nel 2000), mentre i due dirigenti della ASL (meridionali) che denunciarono furono silurati (politicamente).

La sporcizia è ovunque. Una differenza tra nord e sud riguardo alla sanità comunque c'è, e risiede nei bilanci. Quelli di Campania e Sicilia sono addirittura disastrosi (insieme alla regione Lazio fanno il 58% del rosso totale italiano). Ed i soldi non vengono spesi neanche tanto bene. Mancano le strutture ma in compenso si comprano medicine e si eseguono esami in quantità vertiginosa: non sono infrequenti i ritrovamenti di partite di medicinali scaduti negli ospedali e solo una tac su dieci produce una diagnosi positivo (dati Sicilia).

Risultato? Quest'anno i siciliani si troveranno a pagare per gli sperperi un ulteriore addizionale sull'IRPEF che andrà a finire dritta dritta nelle tasche delle multinazionali farmaceutiche (e non mi sembra che in Sicilia ve ne siano poi tante...) ed in quelle delle aziende produttrici di macchinari per la diagnostica (anche per queste: quante sono siciliane?).

Nel frattempo, la mancanza di strutture adeguate (e la pubblicità dei giornali...) spingono i siciliani a spostarsi al nord per le cure esportando valuta da una regione non così ricca che poi paga anche una parte delle cure e delle visite effettuate al di fuori del suo territorio.

Cosa vuol dire tutto questo? Vuol dire il solito flusso di danaro che da sud fluisce verso nord. Ecco perchè per Vibo si fa una fiaccolata e per Firenze si fa velocemente sparire la notizia dalle pagine dei giornali e dei siti.

Ecco perchè all'ISMETT di Palermo si lavora con il cuore in gola: se una tragica fatalità dovesse accadere proprio lì... altro che squalifica del campo per otto giornate. Potremo dire addio al centro di eccellenza trapianti per sempre.
[Continua a leggere...]

venerdì, febbraio 16, 2007

Una serie A con 20 squadre siciliane

Che brutto risveglio. Stavamo ancora sperando che fosse solo un incubo ed invece è tutto vero. Se un attimo ci fermiamo e ripensiamo allo strappo che c'è stato non riusciamo a crederci. Da quel maledetto giorno del derby in mondovisione niente è più lo stesso. Per alcuni. Per altri invece il colpo di mano era atteso. Sin dal giorno di quel famoso articolo apparso sul Financial Times: “Quando la Sicilia può competere, allora sai che ilsistema italianoè andato in pezzi”. Su questo stesso blog è stato scritto che quello non era altro che un avvertimento, un segnale cifrato in puro stile mafioso che suggeriva dove colpire. E diligentemente i nostri dolci connazionali di stanza a Roma, ma con le radici ben salde tra le luride lande padane, hanno eseguito. Senza dimenticarci degli ascari locali, per carità!

Ma lasciamo perdere. Tutte queste teorie del complotto. Ci hanno già dimostrato che i complotti esistono in tutto il mondo tranne che in Italia. Prendi Ustica ad esempio: ma quali aerei da caccia, ma quale battaglia nei cieli. Niente di tutto questo. E di conseguenza, niente risarcimento alle vittime. Per quattro terroni. Ma figurati. Solo che poi, stranamente, Alitalia continua ad essere considerata una delle compagnie aeree più sicure al mondo. Come se quel disastro non fosse avvenuto, o meglio non fosse da addebitarsi alla compagnia. Quando si dice i misteri italiani.

Ma, dicevamo, lasciamo perdere. Lasciamo perdere tutto questo rumore per un attimo e facciamo mente locale. Chiediamoci che cosa sia lo sport ed a cosa serva, che forse si è persa per strada la sostanza.

Come praticamente ogni cosa umana, per essere bilanciato esso dovrebbe avere una funzione sociale ed una economica.

Riguardo alla funzione sociale tutti (credo) abbiamo un'idea di cosa si stia parlando. Gli adolescenti, tramite l'allegoria dello sport e delle sue regole imparano a vivere in una società, acquisiscono uno “scopo” di vita, si abituano a lottare (onestamente si spera) per raggiungere un determinato obbiettivo. Tale funzione sociale cessa per il singolo atleta non appena questi diviene un professionista maturo. A quel punto lo sport disveste i panni di obbiettivo allegorico e si trasforma in obbiettivo reale. L'atleta stesso diventa un importante punto di riferimento per l'adolescente che a sua volta inizia ora lo stesso percorso allegorico.

La funzione economica sembra essere più confusa, e tale confusione regna sovrana nel calcio, dove la realtà è stata travisata grazie alla trasformazione delle società sportive in vere e proprie aziende, per alcune con tanto di quotazione in borsa. Non che qui si voglia criticare questa trasformazione che anzi rende più flessibile e (si sperava...) trasparente l'operato della società, solo che essa rende anche poco comprensibile l'obbiettivo economico. Che non è quello di generare profitto direttamente: lo sport professionistico è soprattutto immagine, ed il ritorno d'immagine genera profitto in tutte quelle attività che in qualche modo sono connesse all'atleta o alla squadra. Non nella squadra stessa.

Si pensi al turismo, alle attività economiche dei soci, a quelle degli sponsor. Più l'atleta o la società diffondono un'immagine positiva di sé a livello globale, maggiori sono le ricadute economiche locali. Ovviamente nell'ipotesi che una parte delle attività economiche ad essa connessa abbiano qualche legame con il luogo d'origine, cosa quasi certamente vera nel caso del turismo e dell'immagine di una comunità.

A questo punto, sostenere il Catania, o il Messina, o il Palermo nel calcio come in qualunque altro sport avendo come obbiettivo semplicemente quello di giocare nella massima serie è alquanto riduttivo. L'obbiettivo deve essere quello di andare a giocare dove c'è il maggiore ritorno d'immagine.

Negli anni ottanta (o meglio, prima della caduta del muro...) effettivamente c'era poco di più della serie A. Ma in un mercato globalizzato come quello di oggi, guardiamoci in faccia un attimo: ma che minchia ci andiamo a fare a Bergamo? A Verona? Ad Empoli? Quale ritorno di immagine dovrebbe venirci dal giocare in quei purtusi dimenticati da Dio? Soldi buttati. I campi che ci interessano sono altri: noi vogliamo andare a giocare sì a Milano, a Roma, a Torino, diciamo a Napoli, ma anche (e soprattutto) a Barcellona, a Londra, a Parigi, a Monaco. E non per sentirci dire che bella squadra che abbiamo. Semplicemente perché tutti noi siciliani se il Palermo, il Messina, o anche la UPEA Capo d'Orlando o la Orizzonte Catania vanno a giocare in quelle città abbiamo da guadagnarci. Economicamente.

Proviamo a fare un consuntivo economico di quest'anno con tre squadre siciliane nella serie A italiana: il Messina non si è fatto tanto onore, e comunque la seconda retrocessione consecutiva non farà un granché bene all'immagine della città. Il Catania sul campo è andato benissimo, ma quanto a immagine della città diffusa dai media italiani... lasciamo perdere. Il Palermo sicuramente centrerà l'Europa, ma non è detto che arrivi dove vuole arrivare. Sforzi economici immani per ottenere il nulla. Anche l'ultimo derby ci hanno rovinato (no, no, niente complotto per carità...) con quello stadio vuoto. O si, certo: faremo meglio l'anno prossimo. Poveri illusi.

Ma allora, perché non smettere di soffrire ed avere ogni anno tutti i derby siciliani che vogliamo (ovviamente a patto di cambiare questore, prefetto e procuratore della repubblica)? Perché non avere ogni anno due o tre squadre in tutte le coppe europee, nel calcio, nel basket, nella pallavolo? Perché non avere un nostro comitato olimpico? Senza contare il ritorno d'immagine dovuto a qualche medaglia olimpica ed alla partecipazione ai mondiali i calcio. No, no: non per i soliti stupidi motivi, quelli relativi alla Sicilia Nazione, al Popolo Siciliano e così via. Solo per semplici ed egoistici motivi di calcolo economico.

No? Siamo troppo affezionati al nostro vecchio, caro sussidiario? Allora teniamoci il disastro economico. Ed anche i questori incompetenti.




Il questore mostra i compitini dei suoi ragazzi alla stampa


[Continua a leggere...]

giovedì, febbraio 15, 2007

Catania specchio dell'Italia di oggi.

Il miglior commento a quello che è successo a Catania era già stato scritto da anni.

Guarda il video Catania Anno Zero
[Continua a leggere...]

martedì, febbraio 13, 2007

Chi era Hrant Dink

Tra la fine dell'ottocento e la prima parte del secolo scorso le popolazioni armene dell'impero ottomano subirono due tragiche persecuzioni che portarono allo sterminio (pare) di più di 1 milione di persone.

Il genocidio fu scatenato dalle pretese di autonomia degli armeni, oppressi dalla mano forte del regime e sobillati quasi certamente dai russi, desiderosi di poggiare un piede in quella parte del mondo.

La realtà storica, ereditata dalla moderna Turchia, è stata però nascosta dall'ufficialità del nuovo stato nato dalla dissoluzione dell'impero.

Hrat Dink, giornalista turco di etnia armena, era l'editore del settimanale Agos, un periodico scritto in turco ed armeno. Egli parlava apertamente dei fatti storici nascosti dalle autorità, ma al tempo stesso sosteneva che era il momento per gli armeni di affrontare la realtà e di scrollarsi di dorso ogni astio verso la nuova Turchia.

In Turchia però parlare di “genocidio degli armeni” è reato: il giornalista è stato processato nel 2006 per questo e per aver detto di essere armeno e non turco.

Il 19 gennaio scorso Hrant Dink è stato ucciso ad Istanbul.

Malgrado il mondo turco possa sembrare lontano anni luce da qui, la realtà nostrana dal 1860 ad oggi ricalca con incredibile precisione i fatti accaduti nello stesso arco di tempo in Asia minore. Basterebbe usare il termine genocidio culturale ed assassinio mediatico e si sarebbe potuto trattare della Sicilia e di un qualunque studioso della nostra storia (quella vera però!).

La sorte toccata ad Hrant Dink nella sostanza non è diversa dalla sorte che tocca a chiunque in Sicilia e nel Sud Italia cerchi di scovare la verità immergendosi nell'immondo olezzo che emanano le versioni ufficiali dei fatti riguardanti la nostra identità.

Il coraggio di Hrant Dink deve però farci riflettere, e farci capire che la strada verso la libertà è lunga ed irta di pericoli e che solo essendo disposti a sacrificarsi per il nostro ideale l'obbiettivo potrà essere raggiunto.

Ai funerali di Hrant Dink ad Istanbul erano presenti 100.000 persone.


[Continua a leggere...]

lunedì, febbraio 12, 2007

Made in Italy



Le icone rappresentano l'identità di un popolo. Per quanto possa sembrare irrazionale, l'icona è un oggetto capace di racchiudere in sé l'intera vicenda di una civiltà. E tanta più energia sprigiona l'icona quanto più essa è vicina all'evento che rappresenta, sia storicamente che stilisticamente.

Tutti certamente ricordano il trambusto che ci fu intorno alla datazione della Sacra Sindone qualche anno fa, quando atei e “laici” di ogni sorta poterono gridare di gioia quando si scoprì essere di più recente fattura rispetto ai circa duemila anni sino quel momento attribuiti alla reliquia.

Una delle icone più forti dell'italianità e della continuità (almeno ideale) esistente tra la Roma antica e quella moderna nel segno dell'unità politica della penisola italiana è rappresentata dalla Lupa Capitolina, la famosa statua bronzea rappresentante la leggenda della nascita di Roma e conservata ai musei capitolini.

Il più forte connotato dell'icona in esame è anche in questo caso il periodo in cui essa fu creata: l'opera viene infatti datata al V secolo avanti cristo e, per motivi stilistici, considerata di fattura etrusca. Il significato di tale attribuzione risiede nel bisogno di assicurare origini totalmente italiche al grande faro di civiltà che la nazione a forma di stivale rappresenta.

Gli studi sul passato dei popoli che abitano la moderna Italia si dirigono sempre verso le stesse direzioni, con una ripetitività noiosa ed a tratti ossessiva. E' così ad esempio che gli studi sul passato dei siciliani sono tutti protesi a scoprire da dove proveniva questo o quel popolo, anche a costo di scadere nell'idiozia, come nel caso della guida della Sicilia della Mondadori dove si sostiene che “la storia della Sicilia ha un aspetto principale (...): è una storia non siciliana, non generata internamente dall'isola ma sempre imposta dall'esterno. Anche i Sicani, gli Elimi e i Siculi (...) provenivano da fuori (...).”

Dall'altro lato la storia degli etruschi viene sempre rappresentata avvolta da una qualche nebbia che impedisce di vederci chiaro e lascia intatte le ipotesi creazioniste che postulano una lamarckiana autogenerazione sull'italico suolo.

Attribuendo la statua agli etruschi, si vuole creare un nesso tra le due civiltà (etrusca e latina) e assegnare un'origine autoctona a tutto quello che c'è di buono nel bel paese (al contrario, ad esempio, di quanto si fa con la mafia, fantasiosamente siciliana e di origine araba).
Certo qualche dubbio sorge spontaneo, visto che nella realtà dei fatti è sin troppo ovvio che gli etruschi,o meglio la loro civiltà, si estinse a causa dell'espansione romana. Se gli etruschi davvero hanno forgiato quella statua, sarebbe come se i siculi avessero scolpito la Nike di Samotracia o gli indiani d'America prodotto i film di John Wayne.

Ed infatti recenti studi hanno confermato ciò che molti sospettavano, e cioè che la lupa etrusca fosse di origine medioevale, anche perchè la tecnica con la quale è stata fusa (a cera persa con un solo getto, per i tecnici) è tipicamente medioevale.

E sì, questa nazione che ha usurpato il nome di Italia per quasi 150 anni sembra proprio avere una faccia di bronzo: dalla commedia dei mille sino alla recente farsa delle liberalizzazioni di vero c'è solo il dolore di chi continua a vedere i propri congiunti morire per niente. Nel frattempo la decenza dovrebbe imporre almeno che la statua venga rimossa dalla sua attuale collocazione in mezzo ad opere del periodo classico, se non altro per evitare che un falso ideologico così clamoroso, una volta scoperto, possa continuare ad essere perpetrato a danno di ignari turisti.
[Continua a leggere...]

venerdì, febbraio 09, 2007

Capovolgimento di fronte

Due uomini stavano, l'uno dirimpetto all'altro, al confluente, per dir così, delle due viottole (...) L'abito, il portamento, e quello che (...) si poteva distinguer dell'aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla loro condizione. Avevano entrambi (...) un manico di coltellaccio che spuntava fuori d'un taschino (...).

Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente (...). Al suo apparire coloro s'eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento del quale si scorgeva che tutt'e due ad un tratto avevan detto: è lui (...).

"Cosa comanda?" rispose (...).

"Lei ha intenzione" proseguì l'altro con l'atto minaccioso e iracondo di chi coglie un suo inferiore (...) "lei ha intenzione di (...)!".

"Or bene," gli disse (...) all'orecchio, ma in tono solenne di comando, "(questa cosa) non s'ha da fare, domani mai." (...) "Uomo avvertito... lei c'intende." (...) "o se ne pentirà (...).

"Zitto, zitto" riprese (l'altro), "il signor (...) è un uomo che sa il viver del mondo; e noi siamo galantuomini, che non vogliamo fargli del male, purchè abbia giudizio. Signor (...), l'illustrissimo don (...) la riverisce caramente."

Questo nome fu, nella mente di (...), come, nel forte d'un temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un grand'inchino, e disse: "se mi sapessero suggerire..."

"(...) Via, che vuol che si dica in suo nome all'illustrissimo signor don (...)?"

"Il mio rispetto..." (...) "Disposto... disposto sempre all'ubbidienza."

I puntini tra parentesi servono a non rovinare subito la sorpresa: quello che avete appena letto non è un passo di un racconto di Verga o di Pirandello o di chissà quale autore siciliano. Bensì un pezzo di storia della cosiddetta Padania, e cioè l'incipit de "I Promessi Sposi".

Quello che avete appena letto è il punto più alto dello spettacolo coloniale nel quale siamo immersi, la totale manomissione della realtà storica, il falso eretto a sistema.

Un sistema nel quale gli studenti siciliani sono costretti a leggere di una strana ed aliena avventura sul quel ramo del lago di Como dalla quale viene poi sottratta una parte della realtà, scollegandola dal contesto e capovolgendola.

Libri su libri, conferenze, studi scientifici, ricerche storiche: tutto basato sul falso e sulla malafede.

Ma di quali basi sociologiche andate cianciando, cari professori dell'antimafia dei miei stivali. Ma di quale psicologia mafiosa andate scribacchiando, cari specialisti del falso sistematico.

Riprendiamoci la nostra storia. Smettiamola di fare i finti signori e rispediamo le accuse al mittente.
[Continua a leggere...]

mercoledì, febbraio 07, 2007

Dialetto siciliano o linguaggio politico italiano?

Secondo di una serie di tre post a supporto della legge di iniziativa popolare proposta da L'Altra Sicilia.
Prima parte: Siciliano ed Italiano: quale dei due è il dialetto?
Seconda Parte: Un xciuri nel deserto di Sicilia


Nel XIII secolo le liriche della Scuola Poetica di Federico II ci offrono un siciliano già abbastanza sviluppato da poter fornire la base per la nascita della forma letteraria più raffinata di tutto il Mediterraneo sin dalla caduta dell'impero romano (parlare di Europa per quel periodo non avrebbe senso): il sonetto.

Ciò pone un problema di non secondario rilievo riguardo all'origine stessa del siciliano, dai toscani considerato un volgare. Bisogna innanzitutto osservare (per rendersi conto di quanto angusto fosse l'orizzonte culturale dei tanto decantati comuni italiani) come Dante non riusciva nemmeno a capire che i sonetti siciliani da lui letti non erano quelli composti da Jacopo e dagli altri aedi facenti parte della Magna Curia, e che quindi la sua idea di “siciliano” fosse fortemente alterata.

Di più, nella Toscana del XIII secolo la lingua comune era diventata il latino da circa 1500 anni, mentre nella Sicilia “liberata” dai normanni esso era una lingua minoritaria, surclassata da arabo e greco per diffusione. E nemmeno si può credere che quella islamica sia stata solo una parentesi, poiché vi sono forti indizi a suggerire che anche la Sicilia imperiale parlasse greco (e secondo Apuleio anche fenicio, particolare questo di notevole interesse come vedremo tra poco) ed usasse il latino solo nell'ufficialità e per comunicare con i “padroni” romani, incentivi questi venuti meno alla caduta dell'impero ed al passaggio nell'orbita bizantina.

A dare sostegno alla tesi dell'immutato utilizzo del greco durante il buio periodo seguito alle guerre puniche vi è una importante traccia: in un ampia fascia della provincia di Reggio Calabria, la cosiddetta area grecanica, si parla ancora il greco dei coloni che fondarono la civiltà della Magna Grecia. Oggi ovviamente si tratta di una eccezione, ma non sarebbe scandaloso pensare che nella Calabria come nella Sicilia (e forse anche nella Puglia meridionale: le tre aree dove oggi si parla siciliano) del XIII secolo ciò fosse normale.

E potremmo spingerci ancora più indietro nel tempo, facendo notare, ad esempio, la strana assonanza tra il nome dato dai greci al vulcano (Aitna, vocabolo dalle origini forse fenicie) e il nome siciliano della protettrice di Catania i cui atti miracolosi più importanti sono legati proprio alle ire di fuoco del monte, e cioè Sant'Aita: è Aita storpiatura del greco Agathos, o piuttosto è Agathos la versione greco-bizantina del culto del dio fenicio Aton?

Andare oltre nei nostri ragionamenti in questa sede sarebbe pretestuoso, che non abbiamo i mezzi per scavare in profondità nella materia. D'altronde chiunque esplorasse la possibilità che il siciliano del 1200 non sia stato un volgare, implicitamente ammetterebbe il suo status di lingua. E' interessante però chiedersi il perchè tali idee siano bocciate a priori dai cattedratici, i quali non si degnano neanche di discuterle dal punto di vista scientifico limitandosi a mostrare la stessa sdegnata noncuranza con cui di solito accantonano maghe e “mavari”.

La diatriba tra siciliano lingua e siciliano dialetto è in realtà inesistente, poiché per la comunità scientifica internazionale il siciliano è una lingua a tutti gli effetti (essendo riconosciuta come tale anche nella classificazione ISO con il codice scn), che gode addirittura di buona salute . Ma allora il problema sorge solo per italica ignoranza? E no. Aggrapparsi all'ignoranza sarebbe voler essere magnanimi con i colpevoli, e noi non lo saremo.

Esiste una eccezionale raccolta di articoli che può far luce sull'argomento: essa è stata pubblicata con il titolo “La fiera del Nigrò” da Sellerio e mette insieme gli scritti sul siciliano di Salvatore C. Trovato, professore di linguistica all'Università di Catania (si noti come sia l'autore che la casa editrice siano siciliani...).

L'autore ci porta per mano attraverso la Sicilia linguistica schiudendo davanti ai nostri occhi i segreti di modi di dire e di vocaboli che inglobano millenni di stratificazioni. Scopriamo ad esempio (ed è un particolare importante) che un elevato numero di parole a radice latina esistenti nel siciliano non provengono direttamente dal latino ma dalle lingue romanze (francese, spagnolo, italiano). In questi cammei egli si dimostra oltremodo competente trasudando dal suo indagare un amore per la materia certamente fuori del comune. Dove però troviamo qualcosa di stonato non è tanto nel suo posizionarsi tra i sostenitori della teoria del dialetto, ma nella veemenza con la quale sembra proporci la sua tesi.

Quando questi articoli apparivano saltuariamente su riviste dalla periodicità dilatata la cosa forse non saltava all'occhio, ma ora che vengono riproposti tutti assieme l'insistenza del professore riguardo alla cosa diventa ossessiva, quasi tentasse di inculcarci una qualche ideologia. Si va dal fantasioso uso della definizione di “dialetto regionale” (inapplicabile per un idioma dalla diffusione tanto vasta quanto quella del siciliano, parlato anche in Calabria ed in Puglia) sino allo scomposto sbeffeggiamento del famoso studioso Giovanni Ragusa (“un insegnante di Modica...”) colpevole di aver proposto la tesi di una origine diversa dalla neo-latina per la lingua siciliana.

E' tanto preso il nostro da questa rabbia inquisitiva da non accorgersi, nel corso degli anni attraverso i quali scrive i suoi articoli, di aver fatto due errori clamorosi, i quali in fondo spiegano tutto quello che c'è da spiegare sulla storia ufficiale della cultura italiana. Il primo è una strana omissione comune a tutti coloro i quali discettano in termini simili ai suoi di siciliano: costoro partono dal presupposto che il siciliano non sia una lingua senza sentire il bisogno di dirci come mai siano giunti a tale conclusione. Nella Fiera del Nigrò codesta conclusione viene urlata, gli oppositori repressi, la semplice pretesa derisa senza alcuna giustificazione. In base a quali dati incontrovertibili il siciliano dovrebbe essere classificato come dialetto? Quale sarebbe la definizione di lingua e quale quella di dialetto? Diteci cosa sfugge a noi comuni mortali, così potremo metterci il cuore in pace con questa stupidata della “nazione siciliana”. Niente: omertà assoluta!

Il secondo è poi la spiegazione del primo: al capitolo XXXVII la koinè siciliana viene sbrigativamente definita un miraggio. La motivazione dietro questo accanimento non ha nulla di scientifico, ed infatti lo studioso candidamente (ed incredibilmente) ammette che «Nè va sottaciuto il fatto che il concetto di koinè si trascina dietro il pregiudizio che il dialetto regionale sia una lingua e non un dialetto. Conseguenza innocua, se dietro al concetto di lingua non stia spesso (o non sia stato) quello di nazione».

Commentare sarebbe superfluo. Tranne che per sottolineare sino a che livello possa essere lottizzata la cultura siciliana “ufficiale”.

E pensare che credevamo di essere capitati dal lato giusto del muro di Berlino. Ma sarà poi mai esistito questo “lato giusto”?
[Continua a leggere...]

lunedì, febbraio 05, 2007

Avvoltoi a volo radente

Il cielo sopra Catania. Un branco di avvoltoi durante il fine settimana si è dato appuntamento sopra la città. Hanno fiutato il morto. O meglio il ferito. E già cominciano a scendere in picchiata per sferrare i primi colpi.

Il ferito è Catania, ed in questo momento Catania rappresenta la Sicilia.

“Nessuno ha imparato. La squadra va sostenuta, costi quel che costi. L'altra parte della città, quella delle tribune centrali, vede e sorride. I più colti interpretano i rigurgiti di intolleranza come la versione esuberante della virilità catanese. gli altri volgono lo sguardo altrove. E tacciono.”

Ecco il colpo del Sole 24 Ore, a firma del solito ascaro. Righe spudoratamente false che possono fare opinione solo in questa mezza nazione, surclassata persino dai paesi africani in quanto a libertà di stampa.

Dall'altra parte in quell'altro immondezzaio che è la televisione pubblica qualcuno cerca di buttare lì un “sembra quasi come il pizzo”. Nessuno è tanto maiale da raccogliere (per ora). Qualcun altro propone di buttare la squadra in serie C così che gli altri possano ricominciare in pace.

Nel frattempo la politica senza ritegno ha la spudoratezza, davanti al dolore della famiglia Raciti, di assegnare una ideologia (destra o sinistra che sia) agli assassini.

Solo sul sito di calciocatania.com rintracciamo qualche brandello di lucidità. Prima in un articolo forse firmato con uno pseudonimo, non sappiamo. Invitiamo e leggerlo ed a ripetere con l'autore: che il questore si dimetta come in qualunque altro paese civile, perchè lui non ha saputo difendere la nostra città, non il Calcio Catania. Poi con un articolo di Max Licari si riprende l'immagine degli sciacalli.

E vogliamo citare anche l'incredibile uscita del prefetto Achille Serra ieri sera in TV secondo cui (presente l'A.D. del Catania Lo Monaco) gli unici presidenti ad aver tagliato i ponti con gli ultrà sarebbero stati Sensi e Lotito. Grazie prefetto. Capiamo di poter contare su di lei. Ma non solo i catanesi. Sicuramente di sarà trattato di un lapsus, ma tutta la Sicilia ha capito di poter contare su di lei.

Tutta la Sicilia ha capito che le luci erano pronte ad accendersi ed aspettavano solo il momento adatto. Che il gioco si sta facendo sempre più sporco perchè qualcuno si rifiuta ancora di abbassare le corna.

Infine vorrei chiudere con un altro lapsus. Vorrei chiedere al Presidente del Catania, Antonino Pulvirenti, se crede di essere stato colpito solo perchè si è trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato, oppure se anche lui faceva parte del bersaglio.

Perchè sarà sicuramente un lapsus come molti in (quasi) 150 anni di Italia, ma ogni volta che sui quotidiani nazionali compaiono articoli sul settore aereo Low Cost (ed ultimamente ne sono usciti parecchi) vengono citate aziende che hanno non più di uno o due aerei ma mai la sua di azienda. Come se non esistesse. Sarà che oramai vediamo complotti dappertutto. Sarà... ma chi può dirlo?
[Continua a leggere...]

sabato, febbraio 03, 2007

Per cosa è morto l'Ispettore Filippo Raciti?

Un'enorme lenzuolo con l'immagine di Sant'Agata ricopre la curva dello stadio: si tratta veramente solo di sport? E' possibile che il soprannaturale sia stato evocato per un fatto meramente sportivo?

Mentre i commentatori con sincera incoscienza tessono le lodi della strana commistione per l'effetto scenico e le autorità religiose sforzano un sorriso di circostanza per un atto che considerano forse blasfemo, la sostanza dei fatti si rifugia nella notte dei tempi.

Malgrado indagini antropologiche serie e scevre da ideologia siano vietate per quanto concerne l'ambito siciliano, a non pochi osservatori sarà sfuggita la ripetitività liturgica delle feste dedicate alle patrone in molte città e paesi siciliani, caratterizzate per lo più dalle tipiche processioni del fercolo.

Tale ripetitività può trovare un senso logico solo se si ammette che il sostrato cristiano si sia appoggiato ad un substrato preesistente, dove al posto delle più moderne “patrone” si trovava un vero e proprio idolo (o dea) forse comune a tutte le manifestazioni del genere.

Ed a Catania la Patrona è effettivamente venerata come un vero Dio al di fuori della rigida dottrina cattolica, un Dio che si invoca a protezione ed a sostegno nei momenti più difficili e duri della vita della città etnea.

L'associazione di Sant'Agata con la partita di calcio Catania – Palermo è quindi di per sé sospetta: la sua invocazione rimanda già ad un modo di intendere la gara distorto, una vera e propria guerra per la sopravvivenza, in una situazione nella quale la semplice forza umana degli atleti non si considera sufficiente. Il sentire popolare (forse inconsciamente) vede altre forze dietro l'evento sportivo che potrebbero condizionare l'esito della partita e si arma per combatterle.

La cosa non dovrebbe stupire: in Italia intorno al calcio si agitano interessi “pesanti” e tutti sappiamo come le partite più che sul campo di gioco si decidano tra i corridoi dell'alta finanza. Banchieri, petrolieri, leader politici: tutti puntano ed investono sul calcio, e nel Bel Paese nessuno ha mai avuto il coraggio di perdere sportivamente.

A questo va aggiunto qualcosa di ancora più sinistro, che talvolta viene anche accennato nei finti dibattiti televisivi, ma mai in modo organico. La militarizzazione degli stadi è di per se un concetto che apre squarci evidenti sulla realtà sociale italiana e ci dice chiaramente come il problema sorga lontano dagli stadi e lì venga poi trasferito, usando l'evento sportivo per cercare di dare una valvola di sfogo a tale problema.

Per renderci conto di questo, basta notare la lenienza con la quale vengono giudicati crimini efferati che hanno come attenuante proprio il fatto di avvenire dentro uno stadio, la lucida decisione di non intervento da parte dello stato (anzi, l'intervento è stato proprio quello di pilotare e confinare la violenza in un luogo preciso) ed il rifiuto a discutere le radici del problema, limitandosi a dare la colpa a “pochi ultras”.

Pochi ultras che non potrebbero da soli sopraffare 1500 poliziotti come nel caso di Catania se non grazie al coinvolgimento nella violenza di altre centinaia, forse di migliaia di persone (a Catania come altrove, sia ben chiaro!) che nella vita non hanno più altro sfogo della loro rabbia se non quello di appendersi a qualcosa che li rappresenti. E dopo la distruzione della nostra società (e civiltà) ed il fallimento del materialismo, pare non sia rimasto altro che la squadra di calcio.

Ma allora Filippo Raciti è morto per una partita di calcio? No, l'Ispettore Filippo Raciti è morto mentre svolgeva il suo ruolo, in quello che lo stato ha voluto diventasse il momento più delicato della vita sociale italiana. L'alternativa era tra una violenza pronta ad esplodere a caso nelle periferie e che si credeva più difficile da gestire, e la sua esorcizzazione in un ambito ristretto e controllato. Magari pensando che nel frattempo la situazione potesse cambiare.

Certo, si è ridotto il Sud Italia ad un immenso campo di concentramento pensando che prima o poi qualcosa sarebbe cambiato (e non è cambiato) ed ora lo stesso sta succedendo con le tensioni sociali represse che si stanno accumulando nelle periferie urbane di tutta Italia (ed il sud a tal proposito è una polveriera...)

E mentre gli avvoltoi si addensano sul cielo di Catania e dai commenti televisivi si apprende che alla fine lo Stato non cambierà strategia, non ci si stupisca domani: questa volta ci è scappato il morto, la prossima volta ci scappa la guerriglia urbana. Quella vera però, di due o tre giorni. E non stile Beirut, come detto dai commentatori. Preferisco il paragone con la striscia di Gaza: più calzante alla situazione del meridione d'Italia.
[Continua a leggere...]

giovedì, febbraio 01, 2007

Un xciuri nel deserto di Sicilia

Secondo di una serie di tre post a supporto della legge di iniziativa popolare proposta da L'Altra Sicilia.

Leggi il Primo Post della serie


Un problema che spesso si pone di fronte a chi “osserva” la Magna Curia federiciana nel suo complesso è dato da quell'apparente essere cresciuta sotto vuoto, in un ambiente cioè che i libri di storia patria ci dipingono totalmente asettico. Una sorta di nascita miracolosa (per virtù dello spirito italico) in un deserto assoluto. D'altronde è così che il regno normanno viene fatto apparire all'improvviso sui libri di storia scolastici tra il XII ed il XIII secolo: un fiore nel deserto le cui spore sono poi volate lontano senza più germinare sull'isola, un deus ex machina necessario al corretto prosieguo della commedia.

Purtroppo però ci sono prove inconfutabili che l'isola, tra la fine dell'impero romano e l'arrivo dei normanni non cessò di esistere ma, invece di subire i disordini e gli stupri che sommergevano il resto dell'Europa nel medioevo, continuò a fiorire come sempre (ovviamente escludendo le parentesi romane...) prima nell'orbita bizantina e poi nella forma di un califfato.

Malgrado questo, i boriosi cattedratici tricolori, facendo finta di non sapere che a sud di Roma nel XIII secolo esisteva uno stato nazionale moderno, uno dei meglio organizzati d'Europa, capace di scambi continui con tutti gli altri regni dell'epoca a nord delle Alpi, continuano a sostenere che il linguaggio giullaresco francese, da cui poi la scuola poetica siciliana avrebbe attinto, poteva giungere a sud solo attraverso la “Lombardia”.

Facendo a gara, novelli Virgilio, per cercare di dare una nobile origine padana all'idioma nel quale compongono i loro sproloqui, si scomodano fantomatici canzonieri occitanici che una dinastia veneta avrebbe donato a Federico II e da cui ne conseguirebbe che la Scuola Siciliana nasce, almeno idealmente, nel Veneto (A. Roncaglia, 1983 in Per il 750° anniversario della Scuola Poetica Siciliana): un po' come se il presidente della Repubblica Italiana volesse donare un'edizione tascabile della bibbia alle biblioteche vaticane sostenendo poi l'origine partenopea del cristianesimo. Almeno idealmente.

Il fatto che quasi tutto quello che viene di solito propagandato come quintessenza dell'italianità, dalla pasta, al caffè, sino alle sequenze di Fibonacci (tanto per passare all'ambito scientifico) sia nato nel califfato (indipendente) della Sicilia islamica (e non araba, che i siciliani sempre siciliani erano) non consiglia loro prudenza! Come d'altronde la malcelata presenza di una importantissima scuola poetica di etnia araba in Sicilia non suggerisce a nessuno che un deserto vero e proprio quest'isola non doveva essere, nemmeno dal punto di vista letterario (si veda a tal proposito la Biblioteca Arabo-Sicula di M. Amari).

Un codice francese databile al secolo XI conserva i versi di un poemetto, in hoc anni circulo, che si apre con queste righe:


Mei amic e mei fiel
laisat estar lo gazel!
Aprendet u so noel
de virgine Maria


Lasciate perdere il gazel: gazel è un termine arabo che indica un componimento erotico tipico della lirica classica araba. Questo viene a dire due cose (cito dalle storie patrie di letteratura): che la lirica araba spagnola era conosciuta in Francia e che, vista la somiglianza metrica tra il poemetto francese e le liriche arabe, forse queste ultime hanno anche influenzato la nascita della poesia “trobadorica” (da cui proverrebbe il fantomatico canzoniere veneto).

Guarda caso, in Sicilia il sostrato lirico arabo era presente in loco: non doveva arrivare da oltre i Pirenei come per la Francia. Quello che più colpisce in tutta questa storia è che la prosopopea di regime non ammette neanche lontanamente la possibilità di una origine totalmente autoctona (siciliana cioè) del sonetto: per assicurarsi nobili ascendenti meglio dare il merito ai francesi che ai terroni. Anche se poi, da Garibaldi in poi, sostengono di considerarci compatrioti.
[Continua a leggere...]