L'Ultimo
Che la rotta finale della mafia stia facendo pericolosamente scoprire le carte ai suoi sostenitori “esterni”? Da qualche tempo una “certa stampa” di regime si è esposta forse più del dovuto nel tentativo di mettere i bastoni tra le ruote a chi in Sicilia oramai va dritto per la sua strada e non teme più repentini cambi di vento.
Le strane complicità esistenti all'interno di un giornale quale “La Repubblica” sono state finalmente esposte lo scorso 17 gennaio quando alcuni giornalisti della sede palermitana del quotidiano furono messi sotto inchiesta con l'accusa di favoreggiamento nei confronti di cosa nostra. Gli indagati avevano pubblicato una lista contenente i nominativi delle aziende che avrebbero pagato il pizzo ai Lo Piccolo.
Il motivo per cui questo sia un favoreggiamento, e non solo una fuga di notizie riservate, non può risultare chiaro agli italioti imbevuti del razzismo terminale propagandato dallo stato per ribaltare la verità dipingendo le vittime della violenza mafiosa addirittura come i carnefici, come coloro i quali coscientemente e con omertoso orgoglio pagavano il pizzo permettendo alla delinquenza di prosperare.
Cosa è successo una volta pubblicata la lista? Grazie alle premesse di cui sopra, gli italioti hanno dato addosso ai proscritti. I “marchiati”, dopo aver subito per anni i soprusi di quelle bestie per mandare avanti la baracca, ora venivano anche assaliti dalla folla inferocita che, accusando le vittime dello stupro di aver essi stessi provocato la stupratore, gli ricordavano che l'unico Siciliano buono è quello morto (per mano di mafia, ovviamente). Quello vivo è sicuramente colluso.
Ma se la smettiamo con tutte queste “sovrastrutture” mediatiche e cominciamo a chiamare le cose con il loro nome, allora dovremmo tornare a sostituire il termine “proscritto” con quello di “vittima”. E le vittime di solito vengono ascoltate nei processi in qualità di “testimoni”, termine giuridicamente ben più rilevante. Non solo. I “testimoni” hanno sovente bisogno di protezione da parte delle autorità. Pubblicare la loro lista (segreta) su La Repubblica allora suona quasi come un avvertimento a chi fra quei testimoni avesse potuto dare qualche indicazione in più.
E quello che sta accadendo negli ultimi giorni poi è ancora più significativo.
Il 24 aprile scorso improvvisamente spunta la notizia del ritrovamento di un murales raffigurante Matteo Messina Denaro nei pressi della cattedrale di Palermo. Giorno 26 poi ne spunta fuori un secondo. Le Repubblica ed il Corriere subito parlano di “segnali inquietanti”, di qualcuno che inneggia alla mafia.
Il segnale lanciato dai giornali è sì inquietante, ma non nel senso che ci vorrebbero fare credere. Inquietante è il fatto che quel murales si trovava lì da mesi, e nessuno prima gli aveva dato alcuna importanza. Che il primo disegno esisteva già lo scorso gennaio lo mette in evidenza per primo Walter Giannò, affidabilissimo blogger(*) palermitano che riporta come prova anche una foto con data da lui stesso pubblicata su Flickr.
Certo potrebbe essere un caso: un giornalista se ne accorge all'improvviso e prende al balzo l'occasione per uno scoop, sul quale poi la solita “certa stampa” fa un bel ricamino.
Viene però difficile accreditare la “riscoperta” del murales ancora ad un caso quando un pentito, in passato appartenente (manco a dirlo) al clan di Matteo Messina Denaro, pochi giorni dopo, il 26 aprile, si “suicida” nella sezione di osservazione e trattamento psichiatrico dei detenuti. Certo un “pazzo” può anche suicidarsi, nessuno dovrebbe stupirsi (e per non fare stupire nessuno basta mettere in evidenza le cure alle quali si era sottoposta la vittima ed il luogo in cui il suicidio si è consumato). Ma la notizia così come diramata dalle agenzie contiene anche un inquietante messaggio ripreso da tutti i giornali: “Il suicidio è avvenuto nonostante il reparto fosse controllato da telecamere”. Praticamente, chi doveva capire ha capito. Viene solo da chiedersi se per caso i piedi del “suicida” toccassero terra quando il corpo è stato rinvenuto.
E l'ipotesi della coincidenza cade completamente dopo che alcune dettagliate lettere e intercettazioni del Denaro vengono pubblicate con dovizia di particolari sul Corriere e su altri giornali.
Come mai i muratori della carta stampata all'improvviso hanno costruito tutti questi scoop riguardanti “L'Ultimo”? Può anche darsi che non ci sarà mai permesso di venire a capo di tutta la rete di protezioni extra-siciliane con nomi e cognomi di cui gode “L'Ultimo”, ma questi sono segnali chiarissimi di come il cappio (quello della giustizia questa volta) si stia stringendo e l'ultimo in libertà diventerà presto l'ultimo dei grandi boss ad essere assicurato alla giustizia.
La cosa è degenerata tanto che Piero Grasso, procuratore nazionale antimafia, è dovuto intervenire (visto che tra l'altro in alcune intercettazioni si discuteva di un possibile attentato contro di lui...) parlando apertamente di “tradimento di servitori dello stato” in merito ad un articolo del Corriere della Sera:
“Rimane il panorama desolante del 'tradimento' del giuramento di fedeltà che ogni servitore dello Stato fa all'inizio della sua attività, unitamente alla mancanza di remore di qualsiasi natura da parte di chi ha proceduto alla pubblicazione di notizie di tale gravità, da poter mettere in pericolo l'incolumità delle fonti originarie, ben individuabili dalle organizzazioni mafiose”.
Come nel caso della lista delle vittime dei Lo Piccolo, anche qui il problema è l'incolumità delle fonti originarie che, a quanto sembra, quella solita “certa stampa” cerca costantemente di minare. Quando ci sono dei fratelli in pericolo...
(*) Ecco la vera forza dei blog: tranne che in rare eccezioni, non possono raggiungere le masse. Ma mettono in circolo testimonianze e dettagli a volte fondamentali sui quali gli “addetti ai lavori” (avvocati, inquirenti, giornalisti veri) possono lavorare per arrivare alla verità.
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