Un xciuri nel deserto di Sicilia
Secondo di una serie di tre post a supporto della legge di iniziativa popolare proposta da L'Altra Sicilia.
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Un problema che spesso si pone di fronte a chi “osserva” la Magna Curia federiciana nel suo complesso è dato da quell'apparente essere cresciuta sotto vuoto, in un ambiente cioè che i libri di storia patria ci dipingono totalmente asettico. Una sorta di nascita miracolosa (per virtù dello spirito italico) in un deserto assoluto. D'altronde è così che il regno normanno viene fatto apparire all'improvviso sui libri di storia scolastici tra il XII ed il XIII secolo: un fiore nel deserto le cui spore sono poi volate lontano senza più germinare sull'isola, un deus ex machina necessario al corretto prosieguo della commedia.
Purtroppo però ci sono prove inconfutabili che l'isola, tra la fine dell'impero romano e l'arrivo dei normanni non cessò di esistere ma, invece di subire i disordini e gli stupri che sommergevano il resto dell'Europa nel medioevo, continuò a fiorire come sempre (ovviamente escludendo le parentesi romane...) prima nell'orbita bizantina e poi nella forma di un califfato.
Malgrado questo, i boriosi cattedratici tricolori, facendo finta di non sapere che a sud di Roma nel XIII secolo esisteva uno stato nazionale moderno, uno dei meglio organizzati d'Europa, capace di scambi continui con tutti gli altri regni dell'epoca a nord delle Alpi, continuano a sostenere che il linguaggio giullaresco francese, da cui poi la scuola poetica siciliana avrebbe attinto, poteva giungere a sud solo attraverso la “Lombardia”.
Facendo a gara, novelli Virgilio, per cercare di dare una nobile origine padana all'idioma nel quale compongono i loro sproloqui, si scomodano fantomatici canzonieri occitanici che una dinastia veneta avrebbe donato a Federico II e da cui ne conseguirebbe che la Scuola Siciliana nasce, almeno idealmente, nel Veneto (A. Roncaglia, 1983 in Per il 750° anniversario della Scuola Poetica Siciliana): un po' come se il presidente della Repubblica Italiana volesse donare un'edizione tascabile della bibbia alle biblioteche vaticane sostenendo poi l'origine partenopea del cristianesimo. Almeno idealmente.
Il fatto che quasi tutto quello che viene di solito propagandato come quintessenza dell'italianità, dalla pasta, al caffè, sino alle sequenze di Fibonacci (tanto per passare all'ambito scientifico) sia nato nel califfato (indipendente) della Sicilia islamica (e non araba, che i siciliani sempre siciliani erano) non consiglia loro prudenza! Come d'altronde la malcelata presenza di una importantissima scuola poetica di etnia araba in Sicilia non suggerisce a nessuno che un deserto vero e proprio quest'isola non doveva essere, nemmeno dal punto di vista letterario (si veda a tal proposito la Biblioteca Arabo-Sicula di M. Amari).
Un codice francese databile al secolo XI conserva i versi di un poemetto, in hoc anni circulo, che si apre con queste righe:
Mei amic e mei fiel
laisat estar lo gazel!
Aprendet u so noel
de virgine Maria
Lasciate perdere il gazel: gazel è un termine arabo che indica un componimento erotico tipico della lirica classica araba. Questo viene a dire due cose (cito dalle storie patrie di letteratura): che la lirica araba spagnola era conosciuta in Francia e che, vista la somiglianza metrica tra il poemetto francese e le liriche arabe, forse queste ultime hanno anche influenzato la nascita della poesia “trobadorica” (da cui proverrebbe il fantomatico canzoniere veneto).
Guarda caso, in Sicilia il sostrato lirico arabo era presente in loco: non doveva arrivare da oltre i Pirenei come per la Francia. Quello che più colpisce in tutta questa storia è che la prosopopea di regime non ammette neanche lontanamente la possibilità di una origine totalmente autoctona (siciliana cioè) del sonetto: per assicurarsi nobili ascendenti meglio dare il merito ai francesi che ai terroni. Anche se poi, da Garibaldi in poi, sostengono di considerarci compatrioti.
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