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lunedì, aprile 02, 2007

Il ministro gioca d'azzardo

La decennale vicenda del casinò di Taormina, oramai diventata emblema dell'oppressione dello stato in Sicilia, ha di nuovo provocato quello sdegno generale che in sempre più occasioni vede il Popolo Siciliano unito, ovviamente ad esclusione dei soliti professoroni dell'antimafia, razza di avvoltoi tipica della nostra isola dedita più al saccheggio che al perseguimento della verità.

Il richiamo ai "professoroni" non è casuale, dato che il ministro pseudo-siciliano Giuliano Amato ha invocato il loro adattabile nume per liberarsi degli scocciatori che lo attendevano al varco con la solita richiesta circa la riapertura della vecchia casa da gioco a Taormina.

Con le incaute dichiarazioni del ministro dell'interno la linea di motivazioni secondo cui il casinò di Taormina servirebbe prevalantemente da lavanderia della criminalità organizzata siciliana (o mafia che dir si voglia) è stata ufficializzata definitivamente. Il che espone il fianco dello Stato ad alcune considerazioni di una certa gravità.

Che nei casinò si possa facilmente riciclare denaro non dovrebbe sorprendere nessuno. E non dovrebbe sorprendere nessuno il fatto che in quasi tutti i casinò italiani si siano diffusi odori di riciclaggio provenienti da sud. Sorprende invece come questi odori vengano quasi sempre sorvolati dai mezzi di stampa e come i personaggi che li emanano vengano presto allontanati dalle prime pagine dei giornali(vedi ad esempio il recente caso che ha coinvolto la gloriosa casa Savoia).

Il libro "Messina Campione d'Italia" del 2006 ad esempio, scritto da Roberto Gugliotta e Gianfranco Pensavalli, spiega i meccanismi grazie ai quali la malavita messinese ricicla denaro sporco nella famosa casa da gioco.

La contiguità giurisdizionale tra la Sicilia ed il resto d'Italia rende nulla la barriera posta dalla distanza geografica. Non essendovi frontiere il corriere che viaggia con i soldi da riciclare non rischia più di tanto nel fare il viaggio verso nord.

Il problema potrebbe essere un altro e risiedere proprio nella legalità dei guadagni delle case da gioco autorizzate: il casinò di Taormina insisterebbe in larga parte sulla provincia di Catania, fino ad un decennio or sono regno incontrastato del temutissimo Nitto Santapaola (oggi in carcere). Tra gli anni 80 e 90 uno dei maggiori "business" del gruppo Santapaola era proprio il gioco d'azzardo. Catania era un pullulare di bische clandestine gestite dai membri del clan, frequentatissime da tutta la Catania bene (politici, imprenditori, personalità) e probabilmente era lo stesso a Messina, come probabilmente lo è ancora oggi, anche se con una minore intensità.

L'apertura di una casa da gioco legale avrebbe significato la perdita di un enorme giro d'affari. Cosa ci andavano a riciclare dopo?

In effetti tale linea di ragionamento è quella classica che sottende a tutte le legalizzazioni: senza dover nuovamente tornare al probizionismo americano, sia a destra che a sinistra in Italia si propone l'ovvia ricetta della legalizzazione per combattere da un lato lo sfruttamento della prostituzione e dall'altro il traffico internazionale di stupefacenti.

Stranamente però secondo i professoroni dell'antimafia (e da oggi anche secondo lo stato...) tale legge non varrebbe nel caso del gioco d'azzardo. Come dobbiamo interpretare la cosa? Una evidente manifestazione dell'altissimo valore della ricerca scientifica italiana capace di interpretare al meglio le problematiche sociali o il solito moralismo peloso buono solo a coprire aree particolarmente grigie della realtà politica italiana?

Tornando al nostro caro ministro, dicevamo come la dichiarazione lasci il fianco scoperto a parecchi cattivi pensieri fornendo legna da ardere a chi vede nella "mafia" non un avversario dello stato italiano ma un suo fedele emissario incaricato di mantenere l'ordine nei possedimenti d'oltre faro.

Noi sicuramente crediamo nella buona fede di Amato (magari digerendo a fatica quel suo ammiccamento alle origini siciliane), ma restiamo perplessi sul come possa diventare ministro (dell'interno per giunta) qualcuno che non abbia la benchè minima idea di quello che stia succedendo nella nazione da egli stesso governata.

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