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martedì, marzo 10, 2009

Intervista a Massimo Costa (Prima parte)

Pubblichiamo in due parti un'intervista al Professore Massimo Costa, autore del libro "Lo Statuto Speciale della Regione Siciliana: un'autonomia tradita?", versione aggiornata di un lavoro analogo già pubblicato a puntate su L'Isola, periodico de L'Altra Sicilia. Nel ringraziare Massimo per la disponibilità dimostrata nei confronti de Il Consiglio, ne approfitto anche per segnalarvi la presentazione ufficiale del libro, che si terrà nella sala gialla di Palazzo Reale (Palermo) alle ore 17. Per chi volesse conoscere più a fondo le idee sulle quali si basano non solo i vari movimenti indipendentisti ed autonomisti siciliani, ma anche i semplici blog come questo che orbitano attorno alla galassia sicilianista questa è senz'altro un'occasione da non perdere, visto che è prevista la presenza tra il pubblico dei rappresentanti di una gran parte di questi movimenti.

Caro Massimo, iniziamo con lo scoprire il tuo passato. Tutti noi quando si parla della Sicilia e delle sue istituzioni siamo degli autodidatti: le scuole e le università ci hanno offerto molto poco in questo senso e non c'è da stupirsi se oggi la stragrande maggioranza dei siciliani non riesce a comprendere e ad essere fieri della propria costituzione. Qual'è la tua storia personale a questo riguardo? Come hai ri-scoperto la Sicilia e come sei riuscito ad innamorartene al punto tale da dedicarvi così tante energie della tua vita?

È una lunga storia, della quale ho quasi pudore a parlare. Tutti i “sicilianisti” lo sono diventati prima o poi con un processo di maturazione personale; io in un certo senso lo sono nato. Cercherò di spiegarmi e di essere abbastanza sintetico. Tempo addietro mio padre digitalizzò una vecchia cassetta magnetica dei primi anni ’70 – allora potevo avere 7/8 anni – e me ne fece omaggio. Era un ricordo di famiglia, c’era la voce di mia nonna e, fra le altre cose, c’ero io che spiegavo a mio zio, allora già ultraquarantenne, i torti che la Sicilia aveva subito dall’Italia e i vantaggi che avrebbe avuto se fosse stata indipendente. Certo i concetti erano espressi in maniera elementare, da bambino, ma erano già relativamente lucidi. Nel tempo mi ero completamente dimenticato di quella conversazione col fratello di mio padre che mi avrà guardato come un “alieno” ma, riascoltandola, questa “maturazione” mi è ripassata in un lampo alla mente. Imparai a leggere a circa 3 anni, poco dopo non mi soddisfaceva più il giornaletto di “Provolino” o “Braccio di Ferro” e sbirciavo le figure dei libri di matematica di mio padre il quale, dopo avermi sentito fare qualche intuizione un po’ troppo avanzata per un bimbo di 4 anni, me li fece sparire. In cambio mi diede un atlante del Touring Club, un planisfero, spiegandomelo a grandi linee. In un mese conoscevo tutta la geopolitica mondiale (e, ovviamente, nel mio “intimo” sono rimasto fermo, per me il “Burkina Faso” è sempre l’Alto Volta e l’Angola è provincia portoghese d’oltremare); era un gioco, come il Risiko. Poi cominciai a sbirciare il sussidiario di mio fratello che già andava in terza, e “conobbi” la storia. In breve mi ci tuffai, assumendone dosi sempre più forti, e divenne la mia grande passione per sempre. Da questa passione per la storia, poco a poco, inevitabilmente, germogliò quella per la Sicilia, nonostante la storiografia ufficiale che mi arrivava per le mani fosse quasi tutta patriottarda. A 5 anni, nel 1972, ebbi la prima confusa percezione dell’attualità politica con le elezioni di quell’anno e capii che quello che stava accadendo doveva essere l’ultima pagina di un ideale grande libro che era cominciato con gli uomini primitivi e volli saperne di più. Ovviamente fuori dai miei studi ero un bambino assolutamente normale, soltanto uno che si faceva un po’ pregare dagli amici per lasciare quegli strani libri da grandi e scendere giú a giocare e, come tutti gli enfant prodige, da “grande” sono via via rientrato nella piú banale ordinarietà.
Non c’era niente da fare. Alcune cose che leggevo “non stavano in piedi” e me ne accorgevo sempre piú. E tuttavia la passione entusiastica con cui studiai soprattutto le vicende del Regno di Sicilia continuavano a lasciarmi in un sicilianismo epidermico, confuso, un po’ come quello ancor oggi prevalente in gran parte dell’opinione pubblica e non ancora convertito in coscienza politica. Devo tale conversione vera e propria a due fatti singolarissimi, l’uno della mia fanciullezza, l’altro molto piú tardo, dopo la maggiore età.
Il primo lo devo a un autore misterioso, vero Giano bifronte della letteratura siciliana: Luigi Natoli. Apparentemente garibaldino e unitarista in modo ossessionato (o lo era veramente?) lasciava passare nei suoi scritti letterari messaggi cifrati che inneggiavano ad un sicilianismo radicalissimo e romantico. Già lo avevo intuito dai “Beati Paoli” che, in un riposo forzato per una malattia, mi ero ritrovato a leggere. Poi lessi anche tanto altro di lui. E, che dire? I suoi omaggi untuosi al fascismo e all’italianità della Sicilia invece di convincermi mi sembravano giustapposti, mi rafforzarono nella cultura del sospetto, mentre altri messaggi mi parvero chiarissimi. Cito ancora una lettura a memoria, e spero di non dilungarmi troppo: “Veramente la Sicilia non va debitrice a Roma di nessun beneficio. Roma, che incivilì i barbari, etc.etc., qui in Sicilia, dove tante cose imparò, imbarbarí un popolo civilissimo, calpestò ogni diritto, distrusse la coscienza…Pareva che Roma facesse di tutto per abbassare, umiliare lo splendore della civiltà siceliota, quasi mossa da un senso d’invidia per la superiorità spirituale e civile della sua provincia”. E mi chiedevo: ma sta parlando davvero dell’Antichità? O parla – come può – della Sicilia italiana? Un po’ come l’Amari (che allora non conoscevo) che parlava male degli “angioini” mentre era chiaramente rivolto contro i Borbone. Lí l’amore per la propria terra, generico, si andò trasformando in vero sicilianismo, ancorché allora solo “autonomistico”. E intanto notavo sulle strade i manifesti dell’FNS, un po’ sbiaditi, con la scritta “Sicilia svegliati!” dell’immarcescibile Pippo Scianò. Chiedevo ai grandi cosa fossa quel simbolo, che mi intrigava, e, tra il serio e il faceto, mi rispondevano “il partito della Birra Messina”. Curiosando tra i giornali su quello strano partito palermitano, scoprii che prendeva percentuali da prefisso telefonico, e che aveva un minuscolo clone catanese, l’FGS, di cui non ho mai saputo chi fosse il protagonista. Meno decisivo, ma ugualmente importante, per me fu leggere ai tempi della scuola media, pochi anni dopo, l’indimenticabile “La Nazione Siciliana” dello storico Massimo Ganci, altro vero maestro spirituale.
Il secondo fatto lo devo al trasferimento a Milano, dopo la maturità classica, a 18 anni per frequentare l’Università Bocconi, dove ho preso la laurea in Discipline Economiche e Sociali. Ma c’è un piccolo antefatto che non posso saltare: all’ultimo anno di scuola mi toccò in sorte, tra le tante professoresse di storia e filosofia possibili e immaginabili, la figlia di quel D’Antoni che fu primo Alto Commissario per la Sicilia poi rimosso per le simpatie separatiste e poi di nuovo personaggio di spicco durante il Milazzismo. La prof. D’Antoni ci costrinse a studiare la costituzione del 1812, ma avrei saputo solo molti anni dopo delle sue simpatie separatiste. E alla maturità, altra coincidenza “astrale”, mi capita come presidente di Commissione il più antiautonomista degli storici siciliani contemporanei: Giuseppe Carlo Marino. Proprio da lui, ironia della sorte, che lesse e corresse personalmente il tema di storia che avevo scelto, ebbi il suggello per il massimo dei voti. Dicevo della trasferta a Milano… Lí capii definitivamente che parlavo l’italiano ma che con gli italiani veri, quelli della “Padania”, non avevo nulla in comune; lí maturai il mio nazionalismo siciliano definitivo. Potrei citare anche un lungo viaggio in Scozia (due mesi nell’estate del 1989) dove capii che gli scozzesi stavano mettendo in pratica quello che la nostra “nazione mancata” sembrava ancora non capire. Fu una lezione importante vedere a Edimburgo quello sventolio osannante delle Croci di S. Andrea. E noi? Allora non avevamo neanche lo “stemma” (istituito nel ’90), unica regione d’Italia senza “colori”, con gli autobus regionali che portavano un anonimo e burocratico R.S. Queste cose mi infiammavano, mi facevano quasi male e mi spronavano a trovare la strada di un impegno.
E la strada l’ho trovata. Quella delle idee, della divulgazione, di cui questo libro rappresenta una tappa importante, ma non certo l’ultima, anzi forse solo la prima di quelle veramente importanti.

Il tuo libro-commento sullo Statuto Autonomistico Siciliano è forse, oltre che un importante documento, anche un momento storico, uno spartiacque tra il sicilianismo "fai-da-te” e la nascita di un vero e proprio sistema educativo che permetterà alle future generazioni di dotarsi dei mezzi necessari a confrontarsi con il prossimo nella piena consapevolezza della propria identità. Cosa dovrebbero fare in generale le istituzioni per agevolare questa “restaurazione” della coscienza siciliana?

Io credo che bisogna distinguere il ruolo delle istituzioni pubbliche da quelle private, da società civile. Non illudiamoci che basti il “pubblico” per realizzare quel risveglio culturale di cui la Sicilia ha tuttora bisogno. E vorrei pertanto dare una risposta articolata in questi due ambiti.
Certo il pubblico deve fare la sua parte. È per questo che ho scelto di abbandonare l’impegno politico diretto, già all’indomani della competizione del 2007, perché io possa dialogare con tutti, anche con quelli che il sicilianismo militante potrebbe anche considerare “traditori”. Bisogna capire che oggi le istituzioni siciliane sono in gran parte occupate da siciliani inseriti in sistemi di potere italiani e quindi “contraddizioni viventi”, ma nella misura in cui essi sono anche siciliani e anche rappresentanti delle nostre istituzioni non possiamo mai sconfessarli. L’intellettuale non può essere un uomo di partito e per questo continuo a resistere alle tante sollecitazioni che ricevo. Ma veniamo alla domanda: che devono fare le istituzioni pubbliche? Voglio rispondere con uno slogan estremamente sintetico: formare, informare e naturalmente “dare il buon esempio”. La scuola siciliana e gli altri media devono diffondere quel DNA culturale che costituisce la quintessenza della Sicilianità: la storia, il diritto, la lingua e la cultura. In questo senso il passaggio al bilinguismo potrebbe essere, anche se oggi può apparire alquanto bizzarro, un passaggio culturale decisivo. La coscienza storica dei siciliani, la conoscenza della nostra produzione letteraria, artistica, etc., ma anche della nostra carta costituzionale sono passaggi ineliminabili. Poi l’informazione: dov’è la nostra TV? dov’è l’informazione veramente siciliana? E poi ci vogliono “i fatti” ad ogni livello: dalla lotta agli sprechi, alla valorizzazione di una diversità istituzionale che stenta anche nella progettualità a diventare realtà, all’eversione di circuiti di sottosviluppo concretamente legati alla dominazione italiana. Questo, a grandi linee, il ruolo delle istituzioni e del pubblico in generale.
Per andare sul pratico e “cantierabile” basterebbe intanto una grande riforma della scuola in cui questi contenuti fossero veicolati concretamente, ad una regolamentazione autonoma dell’emittenza radio-televisiva, al sopra accennato passaggio al bilinguismo. In pratica quella proposta di legge di iniziativa popolare che L’Altra Sicilia ha portato avanti e che – non credo ci siano segreti da nascondere – è partita da un’idea di fondo che io mi sono permesso di elaborare. Ora molti dicono che è una buona idea, che va raccolta, migliorata, portata al Parlamento statale. Vedremo. Se sono rose fioriranno.
Per quanto riguarda il privato intanto voglio dire che non penso alle imprese o a loro associazioni o a lobby varie. Credo fermamente che il compito principale delle imprese sia quello di produrre ricchezza, e basta. Poi, certo, possono essere coinvolte in progetti “corporativi” di difesa delle prerogative statutarie che implicano anche qualche vantaggio economico, possono “donare” parte dei loro profitti alla causa, ma guai se avessero come fine principale quello filantropico: fallirebbero, prima o poi, e con esse gran parte delle speranze dei siciliani.
Quando parlo di “privato” parlo di noi, della gente comune, dei volontari, delle associazioni, dell’informazione alternativa. Noi possiamo fare tantissimo, anche e forse soprattutto fuori dai partiti che hanno un’altra, importantissima, funzione. Noi dobbiamo dapprima elaborare il nostro pensiero, non quello di chi ci ha conquistato e incatenato, poi divulgarlo con pazienza missionaria. Il resto verrà da sé; è inevitabile.
Nel mio piccolo ho deciso di dedicarmi a questo. E il testo sullo Statuto era un passaggio obbligato: non c’era alcun libro oggi, almeno aggiornato, che spiegasse ai Siciliani di quanti diritti erano e sono ogni giorno defraudati. Ora questo libro va letto, vorrei dire quasi studiato, se non sembrassi cosí un pedante professorino, promosso, diffuso, regalato a chi può capire.
Ma ci sono tante altre cose in cantiere. Da solo, anche questo libro sarebbe destinato ad impolverarsi nelle librerie.

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