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mercoledì, febbraio 07, 2007

Dialetto siciliano o linguaggio politico italiano?

Secondo di una serie di tre post a supporto della legge di iniziativa popolare proposta da L'Altra Sicilia.
Prima parte: Siciliano ed Italiano: quale dei due è il dialetto?
Seconda Parte: Un xciuri nel deserto di Sicilia


Nel XIII secolo le liriche della Scuola Poetica di Federico II ci offrono un siciliano già abbastanza sviluppato da poter fornire la base per la nascita della forma letteraria più raffinata di tutto il Mediterraneo sin dalla caduta dell'impero romano (parlare di Europa per quel periodo non avrebbe senso): il sonetto.

Ciò pone un problema di non secondario rilievo riguardo all'origine stessa del siciliano, dai toscani considerato un volgare. Bisogna innanzitutto osservare (per rendersi conto di quanto angusto fosse l'orizzonte culturale dei tanto decantati comuni italiani) come Dante non riusciva nemmeno a capire che i sonetti siciliani da lui letti non erano quelli composti da Jacopo e dagli altri aedi facenti parte della Magna Curia, e che quindi la sua idea di “siciliano” fosse fortemente alterata.

Di più, nella Toscana del XIII secolo la lingua comune era diventata il latino da circa 1500 anni, mentre nella Sicilia “liberata” dai normanni esso era una lingua minoritaria, surclassata da arabo e greco per diffusione. E nemmeno si può credere che quella islamica sia stata solo una parentesi, poiché vi sono forti indizi a suggerire che anche la Sicilia imperiale parlasse greco (e secondo Apuleio anche fenicio, particolare questo di notevole interesse come vedremo tra poco) ed usasse il latino solo nell'ufficialità e per comunicare con i “padroni” romani, incentivi questi venuti meno alla caduta dell'impero ed al passaggio nell'orbita bizantina.

A dare sostegno alla tesi dell'immutato utilizzo del greco durante il buio periodo seguito alle guerre puniche vi è una importante traccia: in un ampia fascia della provincia di Reggio Calabria, la cosiddetta area grecanica, si parla ancora il greco dei coloni che fondarono la civiltà della Magna Grecia. Oggi ovviamente si tratta di una eccezione, ma non sarebbe scandaloso pensare che nella Calabria come nella Sicilia (e forse anche nella Puglia meridionale: le tre aree dove oggi si parla siciliano) del XIII secolo ciò fosse normale.

E potremmo spingerci ancora più indietro nel tempo, facendo notare, ad esempio, la strana assonanza tra il nome dato dai greci al vulcano (Aitna, vocabolo dalle origini forse fenicie) e il nome siciliano della protettrice di Catania i cui atti miracolosi più importanti sono legati proprio alle ire di fuoco del monte, e cioè Sant'Aita: è Aita storpiatura del greco Agathos, o piuttosto è Agathos la versione greco-bizantina del culto del dio fenicio Aton?

Andare oltre nei nostri ragionamenti in questa sede sarebbe pretestuoso, che non abbiamo i mezzi per scavare in profondità nella materia. D'altronde chiunque esplorasse la possibilità che il siciliano del 1200 non sia stato un volgare, implicitamente ammetterebbe il suo status di lingua. E' interessante però chiedersi il perchè tali idee siano bocciate a priori dai cattedratici, i quali non si degnano neanche di discuterle dal punto di vista scientifico limitandosi a mostrare la stessa sdegnata noncuranza con cui di solito accantonano maghe e “mavari”.

La diatriba tra siciliano lingua e siciliano dialetto è in realtà inesistente, poiché per la comunità scientifica internazionale il siciliano è una lingua a tutti gli effetti (essendo riconosciuta come tale anche nella classificazione ISO con il codice scn), che gode addirittura di buona salute . Ma allora il problema sorge solo per italica ignoranza? E no. Aggrapparsi all'ignoranza sarebbe voler essere magnanimi con i colpevoli, e noi non lo saremo.

Esiste una eccezionale raccolta di articoli che può far luce sull'argomento: essa è stata pubblicata con il titolo “La fiera del Nigrò” da Sellerio e mette insieme gli scritti sul siciliano di Salvatore C. Trovato, professore di linguistica all'Università di Catania (si noti come sia l'autore che la casa editrice siano siciliani...).

L'autore ci porta per mano attraverso la Sicilia linguistica schiudendo davanti ai nostri occhi i segreti di modi di dire e di vocaboli che inglobano millenni di stratificazioni. Scopriamo ad esempio (ed è un particolare importante) che un elevato numero di parole a radice latina esistenti nel siciliano non provengono direttamente dal latino ma dalle lingue romanze (francese, spagnolo, italiano). In questi cammei egli si dimostra oltremodo competente trasudando dal suo indagare un amore per la materia certamente fuori del comune. Dove però troviamo qualcosa di stonato non è tanto nel suo posizionarsi tra i sostenitori della teoria del dialetto, ma nella veemenza con la quale sembra proporci la sua tesi.

Quando questi articoli apparivano saltuariamente su riviste dalla periodicità dilatata la cosa forse non saltava all'occhio, ma ora che vengono riproposti tutti assieme l'insistenza del professore riguardo alla cosa diventa ossessiva, quasi tentasse di inculcarci una qualche ideologia. Si va dal fantasioso uso della definizione di “dialetto regionale” (inapplicabile per un idioma dalla diffusione tanto vasta quanto quella del siciliano, parlato anche in Calabria ed in Puglia) sino allo scomposto sbeffeggiamento del famoso studioso Giovanni Ragusa (“un insegnante di Modica...”) colpevole di aver proposto la tesi di una origine diversa dalla neo-latina per la lingua siciliana.

E' tanto preso il nostro da questa rabbia inquisitiva da non accorgersi, nel corso degli anni attraverso i quali scrive i suoi articoli, di aver fatto due errori clamorosi, i quali in fondo spiegano tutto quello che c'è da spiegare sulla storia ufficiale della cultura italiana. Il primo è una strana omissione comune a tutti coloro i quali discettano in termini simili ai suoi di siciliano: costoro partono dal presupposto che il siciliano non sia una lingua senza sentire il bisogno di dirci come mai siano giunti a tale conclusione. Nella Fiera del Nigrò codesta conclusione viene urlata, gli oppositori repressi, la semplice pretesa derisa senza alcuna giustificazione. In base a quali dati incontrovertibili il siciliano dovrebbe essere classificato come dialetto? Quale sarebbe la definizione di lingua e quale quella di dialetto? Diteci cosa sfugge a noi comuni mortali, così potremo metterci il cuore in pace con questa stupidata della “nazione siciliana”. Niente: omertà assoluta!

Il secondo è poi la spiegazione del primo: al capitolo XXXVII la koinè siciliana viene sbrigativamente definita un miraggio. La motivazione dietro questo accanimento non ha nulla di scientifico, ed infatti lo studioso candidamente (ed incredibilmente) ammette che «Nè va sottaciuto il fatto che il concetto di koinè si trascina dietro il pregiudizio che il dialetto regionale sia una lingua e non un dialetto. Conseguenza innocua, se dietro al concetto di lingua non stia spesso (o non sia stato) quello di nazione».

Commentare sarebbe superfluo. Tranne che per sottolineare sino a che livello possa essere lottizzata la cultura siciliana “ufficiale”.

E pensare che credevamo di essere capitati dal lato giusto del muro di Berlino. Ma sarà poi mai esistito questo “lato giusto”?

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